La torbiera

Testo ricavato dal libro: "Trana fondamenti di storia e di vita" scritto da Stefano Barone e Ezio Capello

C'è stato un tempo, alcune migliala di anni fa, in cui la Valle di Susa e la Val Sangone, che non si chiamavano certo così, anzi, non avevano neppure un nome, erano interamente ricoperte da una spessa coltre di ghiaccio.

Stiamo parlando dell'ultima delle tre glaciazioni, un fenomeno naturale che si è manifestato in modo piuttosto discontinuo nelle diverse ere geologiche e con lunghissimi intervalli nel corso dei quali il ghiaccio scompariva lasciando solo le morene a testimoniarne il passaggio.

Sulle origini delle glaciazioni si è discusso molto, e si continua a farlo, giacché non è affatto detto che non debbano ripetersi ancora.

Sicuramente si sono manifestate in conseguenza di una sensibile variazione del clima, la quale, a sua volta, ha causato un lento ma progressivo abbassarsi della temperatura.

L'ultima di queste glaciazioni è stata di tali e così vaste proporzioni da sconvolgere la vita sull'intero pianeta, dal momento che ha riguardato il trenta per cento delle terre emerse.

Nella Valle di Susa e nella Val Sangone, che ne sono state direttamente interessate, i segni lasciati dallo scorrere dell'immenso ghiacciaio che si era formato nel fondo di entrambe sono ben visibili ancora oggi.

A vederlo dall'alto, dalla cima del Rocciamelone o da quella del Musine, il paesaggio sottostante doveva essere uno spettacolo da mozzafiato, qualcosa di assai simile a ciò che ci mostrano le foto dei ghiacciai himalayani che scorrono ai piedi dei famosi "ottomila".

Enormi fiumane scintillanti di luce, lunghe decine di chilometri, solcate in senso longitudinale dalle linee scure delle morene, fiumane dal letto tortuoso come quello dei veri fiumi, silenziose e apparentemente immobili.

In realtà queste fiumane sono in continuo movimento, spinte dai ghiacci delle alte montagne che le circondano, i quali tendono, per effetto della forza di gravità, a scivolare verso il basso.

Si tratta di un movimento impercettibile all'occhio umano e che può essere rilevato solo ricorrendo a lunghe osservazioni ed a meticolose misurazioni.

Neanche camminandoci sopra si ha la sensazione di trovarsi su qualcosa che si muove, su qualcosa di "vivo", a meno che non si rimanga fermi, sem pre nello stesso punto, per lunghissimo tempo.

Ma torniamo alle morene della Val Sangone.

Quando i ghiacci avevano cominciato a ritirarsi ed il clima era tornato a farsi più mite, a ricordare il lungo periodo di glaciazione erano rimaste solo più le morene.

La Val Susa e la Val Sangone, ridotte ad un'unica immensa pietraia, dovevano offrire una visione pressoché identica a quella che siamo abituati a vedere dopo una disastrosa alluvione.

Solo terra e sassi, a montagne, senza nemmeno la parvenza di un filo d'erba.

Davvero deprimente come scenario, non c'è che dire, ammesso che ci fosse stato qualcuno in grado di poterlo osservare.

E l'Uomo? L'Uomo c'era, ma era assai più lontano.

Aveva abbandonato da tempo quei luoghi, ormai inospitali, ed era andato a vivere nella grande pianura, oltre il limite massimo raggiunto dal ghiaccio, dove il clima, benché molto freddo, gli aveva consentito di sopravvivere. Siamo nell'ultima fase della cosidetta "Età della pietra" e l'essere umano in questione è l'Homo Sapiens, specie già piuttosto evoluta rispetto alle precedenti, quella dell'Homo Habilis, dell'Homo Erectus e dell'"Uomo di Neandertal".

L'Uomo cosiddetto Sapiens ha lasciato quasi definitivamente la grotta e vive ormai nelle più confortevoli capanne, si è messo ad allevare, ad uso alimentare, il bestiame ovino ed equino, nonché il cane, ma questo solo per compagnia.

Non si copre più soltanto di pelli di animali, ma ha cominciato a fabbricarsi i primi indumenti, tagliando e cucendo fra loro le pelli, e tessendo la lana.

Ha inoltre imparato a coltivare la terra ed a sviluppare il culto dei morti.

La caccia resta pur sempre la sua attività principale, non già come passatempo, ma per necessità, una necessità che lo porta a spostarsi di continuo e ad allargare sempre di più il proprio raggio di azione alla ricerca di nuovi territori di caccia, il che lo costringe ad allontanarsi notevolmente dalla propria capanna e dal clan al quale appartiene.

Ed è così che un bel giorno, durante una di queste "battute a largo raggio", arriva ad affacciarsi a quella che oggi è la Val Sangone.

Di tempo ne è passato parecchio dall'ultima glaciazione.

I ghiacci non ci sono più, sono scomparsi, e il profilo delle morene si nota appena.

Il ritorno del clima a livelli normali e l'alternarsi delle stagioni hanno fatto sì che la zona, un tempo ridotta ad un'immensa distesa di pietre e terra arida, sia nuovamente vivibile, ricca di vegetazione, di acqua e di animali selvatici.

Raggiunto un punto dominante, il cacciatore può così spaziare con lo sguardo l'intera valle.

Nota la presenza di alcuni laghi, e non può che compiacersi della sua straordinaria scoperta.

« Hù! » esclama mentre continua ad ammirare la bellezza del paesaggio che lo circonda.

Poi, con andatura veloce, si rimette in cammino e ritorna sui suoi passi, ansioso di raggiungere la sua capanna e di raccontare ai componenti del proprio clan ciò che ha appena visto.

Trascorre qualche altro millennio.

Dall'"Età del Rame" siamo passati a quella "del Bronzo".

La Val Sangone non è più soltanto un territorio di caccia per gli abitanti della pianura.

L'Uomo si è insediato in modo stabile nelle immediate vicinanze dei quattro laghi.

Attorno al più piccolo, quello che in seguito diventerà la "torbiera" di Trana, sono sorte numerose palafitte, un tipo di struttura abitativa assai diffusa a quel tempo.

Le capanne, essendo sostenute da alti pali infissi nel terreno, permettono di stare all'asciutto, non più a contatto con l'umidità della nuda terra, ed offrono inoltre una maggiore sicurezza contro gli attacchi degli animali feroci e da quelli delle tribù che dimorano nei paraggi.

Un insediamento di "palafitticoli" secondo l'interpretazione del pittore franese Giulio Vigna.

A proposito della formazione dei laghi sopracitati, sorti per effetto della disposizione delle diverse morene glaciali esistenti nella zona, preferisco riportare un brano tratto dalla relazione del dott. Alessandro Portis, membro dell'Accademia delle Scienze di Torino, stesa in occasione del ritrovamento nella torbiera di Trana di una mandibola di "cervo gigante" appartenente alla specie Cervus elaphus, i cui esemplari pare fossero grandi quanto un cavallo.

La relazione porta la data del 5 febbraio 1883.

« È noto come il ghiacciaio della Dora Riparia si sia una volta spinto fino alla Pianura Padana e che, giunto contro al masso serpentinoso di Avigliana, si sia diviso in due rami, l'uno più grande proseguente la valle sino oltrepassato il Musine, l'altro destro, più piccolo, che superata la stretta Avigliana - Sant'Ambrogio si allargò nel bacino Avigliana - Trana portando la sua morena terminale fino oltre il Santuario di Santa Maria di Trana a sbarrare in parte la estremità della valle del Sangone, costringendo il Sangone stesso a cambiare di direzione e poi ad erodere profondamente la morena stessa.

È noto pure come, dopo aver formata questa estrema morena, e dopo aver goduto per un certo periodo di tempo di una estensione considerevole, il ghiacciaio cominciò lentamente a ritirarsi facendo però nel suo periodo di regresso varii tempi di sosta, durante i quali nuove morene concentriche alla estrema formavansi attraverso al bacino stesso.

Una prima, corrispondente ad un primo tempo di sosta, è quella che separa la torbiera di Trana dal lago dello stesso nome, una seconda separa il lago di Trana da quello di Avigliana, una terza questo dalla torbiera di Avigliana ed una quarta il bacino di Avigliana dalla valle della Dora.

Il bacino veniva così suddiviso in altrettanti bacini minori in ognuno dei quali dovevansi raccoglier le acque non aventi uscita fino al punto in cui od a monte od a valle queste trovavano a riversarsi fuori della propria conca ed a trovar così uno sfogo alla pianura.

Tale sfogo fu, dopo lo sgombro del bacino da parte del ghiaccio, trovato a monte per essere le morene più recenti sempre una più bassa dell'altra.

Mentre però il ghiaccio occupava ancora la estremità settentrionale del bacino di Avigliana le acque dovevano esservi molto più alte e cercare uno sfogo a valle, superando ed erodendo in parte la morena estrema gettandosi così nella valle del Sangone. »

« Il primo laghetto formossi adunque topograficamente in coincidenza della torbiera di Trana, ebbe però molto maggiore estensione di quella ed andò man mano allargandosi verso Avigliana a misura che il ghiacciaio ne abbandonava il bacino.

Allorché però il ghiacciaio nel suo regresso ebbe reso libero il varco tra il bacino di Avigliana e lo sbocco della valle della Dora, il lago, non più sostenuto dal ghiaccio, si svuotò nella Dora e solo ne rimasero, sostenuti da altrettante morene, quattro laghetti residui occupanti rispettivamente: la moderna torbiera di Trana, il lago di Trana, il lago di Avigliana e la moderna torbiera di Avigliana.

Mentre il gran lago primitivo si versava a valle, i laghetti residui, per le nuove condizioni di pendenza, ebbero loro sfogo a monte e cominciò lo scaricatore di ciascuno ad erodere la morena che gli serviva di barra. »

« Il bacino della odierna torbiera di Trana, che aveva già, all'epoca della propria individualizzazione, una esigua profondità non tardò ad aver ancora scemata quest'ultima per l'erosione operata dal suo scaricatore e per l'accumularsi di detriti caduti dal circostante pendio, cosicché in breve, per lo svolgersi e rapido estendersi di vegetazione selvosa e palustre favorita dal raddolcimento della temperatura, passò rapidamente dalla fase di Lago a quella di Torbiera.

Gli stessi motivi portarono la intorbazione del laghetto occupato dalla odierna torbiera di Avigliana, mentre più a lungo resistettero, per la maggior profondità e per essere forse in essi scemata la vegetazione palustre, i moderni due laghi. »

« Ad ogni modo è certo che, quando la torbiera di Trana poteva ancor chiamarsi Lago, essa fu abitata dall'Uomo, il quale si stabilì sulle sue rive e trovò conveniente stabilire in essa le Palafitte che i suoi coetanei fabbricavano nel laghetto, oggi pur torbiera, di Mercurago e in tanti altri laghi e laghetti del Piemonte e della Lombardia. »

Che la torbiera, sorta sui resti del più piccolo dei due laghetti di Trana, sia stato un antico insediamento umano lo provano gli oggetti ritrovati verso la fine dell'Ottocento, nonostante due secoli di prelevamenti pressoché continui del prezioso sedimento formatesi, nei millenni successivi all'ultima glaciazione, sul fondo del precedente bacino lacustre.

Stiamo parlando della torba, una specie di carbone naturale derivato dalla lenta decomposizione di piante, erbacce, alghe, foglie, muschi e legname, insomma di tutto quello che accidentalmente finiva in acqua.

Scomparso il lago, al suo posto era rimasto uno strato spesso anche alcuni metri che si presentava sotto forma di una massa spugnosa di colore scuro, quasi nero.

La torba è di facile estrazione.

È sufficiente raccoglierla e pressarla, facendone delle mattonelle che poi vengono fatte asciugare all'aria e al sole, e il combustibile che si ottiene, oltre ad essere più che valido è molto economico, è decisamente quello a minore contenuto di carbonio.

Ma questo materiale è anche un ottimo fertilizzante, motivo per cui è facile capire come, una volta scoperto il giacimento, la torbiera di Trana sia stata presa praticamente d'assalto dalla popolazione locale, al punto che nel 1885 la torba risultava quasi interamente asportata.

Sfortunatamente, nel corso di questi massicci prelevamenti, nessuna attenzione veniva prestata al prezioso materiale paleontologico presente nella torba.

Di conseguenza, si può dedurre che un buon novanta per cento dei reperti che avrebbero potuto essere oggetto di studio siano venuti a mancare.

Manufatti in pietra e la pagaia ritrovati nella ex-torbiera di Trana

Scienziati e studiosi come Sacco, Cantamessa, Marro, Calandra, Bogino, Déchelette, Castaidi e Volta, che non potevano certo dedicare tutto il loro tempo a fare la guardia alla torbiera, vedevano con crescente rammarico il progressivo ridursi dello strato di torba, ben sapendo che ogni giorno qualcosa di estremamente importante andava irrimediabilmente perduto.

Possiamo quindi facilmente immaginare quale deve essere stata l'espressione di sconforto stampata sul volto del professor Sacco alla notizia che alcuni scavatori avevano rinvenuto uno scheletro umano pressoché intatto, ma che, al momento del suo arrivo sul luogo del ritrovamento, del preziosissimo reperto non era rimasta da esaminare nemmeno una falange di un dito mignolo.

Tutto era andato distrutto sotto i colpi del piccone.

Le ossa dello scheletro, ridotte in polvere, molto probabilmente erano finite in un vicino campo di patate, a fare da concime.

Ciò nonostante, grazie alla collaborazione di alcuni contadini del luogo, consapevoli dell'importanza dei reperti racchiusi nella torba, qualcosa si era potuto salvare, soprattutto ossa fossili di alcune specie di animali selvatici, come cinghiali e cervi, e di animali domestici, come il cavallo, il bue e il cane.

Fra i manufatti ricavati con la pietra, era stata ritrovata un'accetta di giadeite, un'altra di pietra grigia, un coltello-sega di selce nera, un altro più piccolo di selce grigia, una punta di freccia di selce grigia e un percussore di eufodite, in altre parole, un rudimentale martello privo di manico.

Fra gli oggetti di bronzo figurano un coltello-ascia, una spada di forma allungata riferibile al terzo periodo dell'"Età del Bronzo" e uno spillone che poteva egualmente servire da ornamento per la testa o per appuntare un indumento.

Sono state inoltre rinvenute alcune forme di fusione in pietra che dimostrano come a Trana, a quel tempo, l'arte di lavorare il bronzo fosse già notevolmente progredita.

I reperti più importanti riguardano forme di fusione per ricavare un rasoio, un'ascia, una punta di lancia nonché una curiosa figura a forma di croce sormontata da un cigno, un oggetto non privo di una certa eleganza, al quale è stato attribuito un significato religioso, forse un amuleto, riferito al culto del Sole, assai diffuso nei tempi preistorici, ed al mito del cigno, al quale era associato.

Una figura identica era stata nel frattempo ritrovata a Gréoulx, sul versante francese delle Alpi, negli antichi condotti di una fonte termale, allora sede di un importante culto di Apollo, la divinità solare dei Romani.

Ma gli studiosi sono stati concordi nell'attribuire a quella figura un'età molto anteriore alla conquista romana.

Tutti questi reperti, assieme ad altri che facevano parte della collezione privata del professor Cantamessa, sono oggi visibili a Torino nel Museo di Antichità e in quello di Antropologia e di Etnografia dell'Università.

L'oggetto che maggiormente mi ha incuriosito è stato tuttavia una bella pagaia ricavata da un tronco di quercia.

Da appassionato canoista quale sono, non ho potuto fare a meno di ammirare la particolare fattura di questo antico manufatto, indubbiamente più solido delle moderne pagaie che a volte si spezzano con una facilità incredibile, e perfettamente adattato alla sua funzione, che era quella di spostare l'acqua e di ottenere la maggiore spinta possibile.

La torbiera, come si presenta oggi.

Questo reperto è importante in quanto dimostra come l'uomo primitivo fosse già in grado di muoversi sull'acqua a bordo di un altrettanto primitivo natante, che poteva essere un singolo tronco d'albero sul quale se ne stava seduto a cavalcioni, ma con le gambe e i piedi a mollo, o meglio ancora una zattera, un insieme di più tronchi legati fra loro con funi rudimentali ricavate dall'intreccio di fibre vegetali.

Reperti interi comprovanti l'esistenza delle palafitte citate nella relazione del dott. Portis sulle rive dell'antico lago non ve ne sono, probabilmente perché erano andati perduti, per noncuranza, al momento della scoperta della torbiera e nel corso dei primi scavi, cioè verso la fine del Settecento.

Il professor Barocelli aveva tuttavia rintracciato una serie di frammenti di rovere da lui attribuiti a pali di fondazione, il più interessante dei quali misura poco più di un metro e mezzo di lunghezza e un diametro di dieci centimetri.

Questo palo si presenta con un'estremità appuntita e carbonizzata, e ciò fa supporre che il processo di carbonizzazione per conservare il legno destinato ad essere immerso nell'acqua fosse già praticato dai palafitticoli.

Anche il prof. Marro era riuscito a recuperare in extremis un frammento di palo di fondazione, che doveva essere di dimensioni notevoli, essendo il suo diametro di ben 35 centimetri.

Il resto del palo, purtroppo, era stato usato come legna da ardere dal suo scopritore ( pare che il reperto sia attualmente conservato nel Santuario di Trana ).

L'ipotesi sulla presenza delle palafitte nei pressi di questa torbiera è comunque convalidata dall'analogia dei reperti qui rinvenuti con quelli dei luoghi in cui questo tipo di struttura abitativa è stato identificato con assoluta certezza.

« Fantastica è l'impressione che ci lascia la pagina di Preistoria letta sui pochi avanzi raccolti nel fondo di quel lago diventato poi torbiera. »

È con queste belle parole che si chiude il lungo capitolo di Piero Barocelli intitolato "Manufatti paleontologici della torbiera di Trana" apparso alcuni anni fa sulla rivista "Archeologia e Belle Arti", dalla lettura del quale si apprende quanto questo sito ormai inesistente abbia contribuito ad una maggiore conoscenza di quel periodo così lontano del lungo cammino dell'Uomo.

Solo un paio di cose, a parer mio, non sono emerse dallo studio dei ritrovamenti avvenuti sul luogo e dalle supposizioni fatte a posteriori, "a tavolino", in merito alle abitudini degli antichi abitanti della torbiera, i palafitticoli.

La prima riguarda la consuetudine di venire a botte ogni volta che questi entravano in contatto con i loro vicini di Reano, di Avigliana, di Sangano e di Giaveno.

L'altra concerne il loro comportamento durante gli spostamenti, cioè se continuassero o meno a portarsi dietro le femmine trascinandole per i capelli.

Sulla prima questione non dovrebbero sussistere dubbi, giacché per millenni l'uomo primitivo ha sempre considerato come potenziale nemico chiunque non facesse parte del proprio clan, diffidando degli sconosciuti e scacciando gli intrusi con ogni mezzo, soprattutto a colpi di clava.

Sulla seconda, invece, non si sa nulla.

Tuttavia mi piace scherzosamente immaginare che la dinamica legata a quella remota e simpatica usanza fosse ancora in vigore e venisse rigorosamente applicata ...

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